Ludwig Wittgenstein fu tra i filosofi più acuti e complessi del secolo scorso; il suo nome è associato principalmente al concetto di gioco linguistico, ma la profondità della sua riflessione giunse al di là delle questioni relative al linguaggio.
Chi si avventurasse nella lettura degli scritti di Ludwig Wittgenstein, soprattutto di quello che viene generalmente definito, con un’espressione secondo alcuni discutibile, il “secondo Wittgenstein”, si renderebbe conto quasi immediatamente che di certezze il filosofo austriaco sembrerebbe offrirne ben poche; le considerazioni, a volte brevi e fulminee, attraverso le quali si esprime, più che dare risposte, determinano l’insorgere di dubbi su dubbi, anche in relazione a ciò che fino a pochi minuti prima della lettura sembrava ovvio.
Eppure, a ben guardare, quel Wittgenstein passato alla storia come colui che sostenne che buona parte dei problemi della metafisica si basavano sulla confusione generata dal verbo essere, e quindi erano riconducibili in ultima analisi al linguaggio, si mosse con l’abilità del funambolo su quel territorio aspro e pericoloso che è il problema della fondazione della conoscenza.
Su quale terreno è lecito costruire l’edificio del sapere? Posta in altri termini la domanda suona così: fin dove è consentito dubitare? “Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza” afferma Wittgenstein, a voler dire che ogni forma di dubbio è possibile unicamente in relazione ad un contesto di cui si è, invece, certi. Il filosofo parla non a caso di gioco del dubitare, riferendosi ai suoi celebri giochi linguistici: ogni gioco linguistico, dunque, ogni tipo di discorso, scientifico e non, parte sempre da certezze non verificate e, in certi casi, neppure verificabili.
Ma la certezza è cosa diversa rispetto al sapere, la certezza, si potrebbe dire, è la base di ogni sapere esattamente come è il fondo infondato di ogni possibile dubbio; “la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso”: l’immagine del mondo, dunque, non è né vera né falsa, è qualcosa che ci è stato tramandato e in cui semplicemente crediamo. Wittgenstein ci suggerisce che, a scavare a fondo sul terreno di ogni scienza, si incontra inevitabilmente una certezza che ha appunto il carattere della credenza infondata.
Chi metterebbe mai in dubbio che il mondo è esistito negli ultimi cento anni? Se qualcuno lo facesse sarebbe additato come folle, esattamente come chi iniziasse a dubitare dell’esistenza del proprio corpo.
“Se un tizio dubitasse se la Terra esisteva già cent’anni fa, io non lo capirei per questa ragione: che non saprei che cosa potrei ancora e che cosa non potrei più ammettere come prova”: ogni possibile prova, infatti, apparterrebbe a quello stesso sistema di riferimento che del quale si dubita.
Ci sono certezze infondate ed intoccabili il cui venir meno determinerebbe il crollo di ogni possibile conoscenza e, proprio per questo motivo, sono al di fuori dei percorsi di ogni ricerca scientifica. Posso discutere riguardo al fatto che la Terra sia una sfera schiacciata ai poli, che la sua orbita sia ellittica ma tutte queste verità scientifiche e le falsità passate che esse hanno soppiantato si basano su di un’unica infondata certezza, che la Terra sia.
Per Wittgenstein “fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche, che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio”; se tutto il sapere umano forma un immenso ed articolato sistema, la base sulla quale si fonda tale sistema poggia praticamente sul nulla, su una voragine grossa e profonda quanto l’antica metafisica.
A. Nese
Chi si avventurasse nella lettura degli scritti di Ludwig Wittgenstein, soprattutto di quello che viene generalmente definito, con un’espressione secondo alcuni discutibile, il “secondo Wittgenstein”, si renderebbe conto quasi immediatamente che di certezze il filosofo austriaco sembrerebbe offrirne ben poche; le considerazioni, a volte brevi e fulminee, attraverso le quali si esprime, più che dare risposte, determinano l’insorgere di dubbi su dubbi, anche in relazione a ciò che fino a pochi minuti prima della lettura sembrava ovvio.
Eppure, a ben guardare, quel Wittgenstein passato alla storia come colui che sostenne che buona parte dei problemi della metafisica si basavano sulla confusione generata dal verbo essere, e quindi erano riconducibili in ultima analisi al linguaggio, si mosse con l’abilità del funambolo su quel territorio aspro e pericoloso che è il problema della fondazione della conoscenza.
Su quale terreno è lecito costruire l’edificio del sapere? Posta in altri termini la domanda suona così: fin dove è consentito dubitare? “Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza” afferma Wittgenstein, a voler dire che ogni forma di dubbio è possibile unicamente in relazione ad un contesto di cui si è, invece, certi. Il filosofo parla non a caso di gioco del dubitare, riferendosi ai suoi celebri giochi linguistici: ogni gioco linguistico, dunque, ogni tipo di discorso, scientifico e non, parte sempre da certezze non verificate e, in certi casi, neppure verificabili.
Ma la certezza è cosa diversa rispetto al sapere, la certezza, si potrebbe dire, è la base di ogni sapere esattamente come è il fondo infondato di ogni possibile dubbio; “la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso”: l’immagine del mondo, dunque, non è né vera né falsa, è qualcosa che ci è stato tramandato e in cui semplicemente crediamo. Wittgenstein ci suggerisce che, a scavare a fondo sul terreno di ogni scienza, si incontra inevitabilmente una certezza che ha appunto il carattere della credenza infondata.
Chi metterebbe mai in dubbio che il mondo è esistito negli ultimi cento anni? Se qualcuno lo facesse sarebbe additato come folle, esattamente come chi iniziasse a dubitare dell’esistenza del proprio corpo.
“Se un tizio dubitasse se la Terra esisteva già cent’anni fa, io non lo capirei per questa ragione: che non saprei che cosa potrei ancora e che cosa non potrei più ammettere come prova”: ogni possibile prova, infatti, apparterrebbe a quello stesso sistema di riferimento che del quale si dubita.
Ci sono certezze infondate ed intoccabili il cui venir meno determinerebbe il crollo di ogni possibile conoscenza e, proprio per questo motivo, sono al di fuori dei percorsi di ogni ricerca scientifica. Posso discutere riguardo al fatto che la Terra sia una sfera schiacciata ai poli, che la sua orbita sia ellittica ma tutte queste verità scientifiche e le falsità passate che esse hanno soppiantato si basano su di un’unica infondata certezza, che la Terra sia.
Per Wittgenstein “fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche, che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio”; se tutto il sapere umano forma un immenso ed articolato sistema, la base sulla quale si fonda tale sistema poggia praticamente sul nulla, su una voragine grossa e profonda quanto l’antica metafisica.
A. Nese